Asociación para el estudio de temas grupales, psicosociales e institucionales

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Un setting per un progetto aperto, per il momento senza titolo, Elisabeth von Salis


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Un setting per un progetto aperto, per il momento senza titolo[1]

Elisabeth von Salis

La Svizzera sta rielaborando un fosco capitolo della sua storia sociale, ovvero la sorte toccata ai bambini e ai giovani che, fino al 1981, hanno subito misure coercitive a scopo assistenziale o collocamenti extrafamiliari. Tra le vittime i bambini collocati a servizio o in istituto, gli internati amministrativi (rinchiusi in istituti chiusi, talvolta penitenziari, senza decisione giudiziaria), le persone che si sono viste violare i diritti riproduttivi (sterilizzazioni/aborti forzati), i bambini dati in adozione senza il consenso dei genitori, gli itineranti (tratto da www.fuersorgerischezwangsmassnahmen.ch).

Le “persone che hanno subito misure coercitive a scopo assistenziale“ hanno oggi un’età fra i 50 e gli 80 anni. Da alcuni anni, in Svizzera, sono state riconosciute come vittime di tali misure. Nel 2013 il Consiglio federale si è scusato con loro per il male loro inferto. Queste persone possono partecipare volontariamente, presso il Dipartimento di giustizia a Berna, a un forum (una seduta di due ore ogni due-tre mesi) e parlare delle proprie esperienze. Al termine della seduta viene loro offerto un aperitivo.

Parallelamente a tale iniziativa si svolge una tavola rotonda alla quale prendono parte esperti quali giuristi, storici, sociologi, rappresentanti delle istituzioni e di organizzazioni ed anche alcune delle vittime. La Tavola rotonda è in particolare incaricata di avviare e coordinare la ricostruzione degli aspetti storici, giuridici, finanziari, sociali e organizzativi legati alle misure coercitive a scopo assistenziale, affinché gli enti coinvolti possano assumere le proprie responsabilità nei confronti delle vittime. Si intende in tal modo garantire che le autorità, le organizzazioni e gli enti coinvolti si assumano le proprie responsabilità nei confronti delle vittime delle misure coercitive a scopo assistenziale. Ai componenti è affidata la coordinazione del progetto sotto i vari aspetti specifici (tratto da http://www.fuersorgerischezwangsmassnahmen.ch/it/tavola_rotonda.html).

Una mia collega psicanalista ha tenuto in questa sede un relazione (www.fuersorgerischezwangsmassnahmen.ch/pdf/Vortrag_Fischer_de.pdf) in merito agli effetti delle misure coercitive sulla seconda generazione, che è stata accolta molto positivamente. In quest’occasione ha incontrato alcune delle vittime ed ha scoperto che queste persone sono intelligenti, aggressive (collera evidente per via del torto subito) e creative. A suo parere non dovrebbero solamente essere interrogate ed esaminate da parte di tutti questi specialisti, bensì avere anche l’opportunità di illustrare personalmente e pubblicamente, nella maniera che ritengono più opportuna, le proprie esperienze e vicissitudini. Intendeva dare la possibilità a queste persone di diventare soggetti attivi della loro storia, per uscire dallo stato passivo del ruolo di vittima in cui erano tenuti.

La mia collega ha chiesto a me e ad altri esperti se eravamo disposti a mettere a disposizione del progetto le nostre conoscenze specifiche. Riguardo al titolo, lo ha lasciato aperto alle idee delle vittime, contrassegnandolo come Projekt o.T., „ohne Titel“ (progetto “senza titolo”).

Il gruppo si è così composto di una psicanalista, un’esperta di marketing e comunicazione, una manager per la comunicazione digitale, una studiosa di cultura e artista, una storica e psicologa ed io in qualità di psicanalista e coordinatrice del gruppo. Nel corso di sette sedute abbiamo dato forma al nostro team ed elaborato il nostro progetto per presentarlo alle ”vittime” interessate. La nostra idea era quella di presentare il nostro team a una seduta del forum. D’accordo con il responsabile del forum abbiamo illustrato brevemente il progetto in un’e-mail dicendo che quattro di noi erano pronte a presentarsi personalmente a una seduta del forum. Com’era da attendersi, ciò ha scatenato reazioni forti e contraddittorie. Nel forum delle „vittime“ vige la regola che basta un parere contrario per rifiutare una proposta. Non abbiamo quindi avuto l’opportunità di presentarci come avremmo desiderato. Il responsabile del forum, che vedeva di buon occhio il nostro progetto, intendeva ugualmente mettere a nostra disposizione gli ultimi 15 minuti della seduta successiva.

Questa sua generosa offerta, però, era per me inaccettabile. Se volevamo lavorare con le “vittime“, dovevamo rispettare la loro decisione presa nel forum. Non intendevamo certo introdurci contro la loro volontà nella seduta. Potevamo però, sempre d’accordo con il responsabile del forum, partecipare all’aperitivo e presentarci in quella sede in modo informale. La cosa interessante è che la seduta del forum quella volta si protrasse 40 minuti oltre il previsto e noi dovemmo attendere pazientemente perché l’aperitivo iniziasse e avessimo l’opportunità di entrare in contatto con gli interessati. Avevamo preparato dei volantini da distribuire, alcuni con una descrizione del progetto ed altri con un modulo d’iscrizione ad un primo incontro a Zurigo, del tutto indipendente dal Dipartimento di giustizia.

Si sono iscritte 17 persone (su circa 40).

Il team si è preparato e mi ha affidato la coordinazione del gruppo. Ho quindi illustrato alle colleghe il setting per il lavoro insieme al concetto operativo di base e spiegato l’importanza del compito che doveva essere elaborato dal gruppo in varie tappe. Mi stava particolarmente a cuore che noi, come squadra, creassimo un contesto entro il quale dare alle “vittime“, ai membri del gruppo, uno spazio in cui poter diventare attivi. Era importante comportarsi in modo molto discreto e non cercare di „aiutare“ né di fornire nostre idee o suggerimenti e interferire in merito a come i membri del gruppo si sarebbero approcciati al loro compito. Dovevamo fare una distinzione fra il compito di coordinazione del team e quello dei membri del gruppo. Ciò è stato molto difficile per i membri del team, che hanno dovuto imparare a sopportare un forte carico emotivo. A dispetto delle turbolenze, la seduta ha avuto uno svolgimento soddisfacente e, a mio parere, è servita a mettere in chiaro quali persone desideravano lavorare a un progetto creativo e quali avevano sperato che noi riuscissimo ad ottenere per loro un vantaggio finanziario. Siamo state sorprese nello scoprire con quanta delicatezza i membri del gruppo si trattavano, con quanta abilità erano in grado di aiutarsi a vicenda in momenti di tensione emotiva. Sono tutte persone (fortemente) traumatizzate e conoscono bene la loro sensibilità e vulnerabilità.

Già nella descrizione del nostro progetto abbiamo previsto sei sedute da tenere mensilmente a Zurigo. Poiché le persone interessate sono domiciliate in diverse regioni sul territorio svizzero, abbiamo fissato l’orario d’inizio delle sedute alle 11.00 affinché tutti avessero il tempo necessario per spostarsi. La prima parte di ogni seduta era di un’ora e mezzo e prevedeva di lavorare all’interno del gruppo coordinato. A questa seguiva una pausa di mezz’ora, nel corso della quale offrivamo loro un semplice lunch al sacco. Quindi si lavorava per un’altra ora. L’incontro durava pertanto tre ore. Dovevamo anche rimborsare loro le spese di trasporto con i mezzi pubblici. All’inizio abbiamo usufruito di una donazione da parte di un ente assistenziale ecclesiastico; dopo le prime sedute abbiamo beneficiato anche di un più cospicuo contributo da parte di una fondazione.

Ai primi sei gruppi di lavoro del progetto hanno preso parte otto persone, tutte piene di idee e molto motivate. Ben presto ha preso concretezza l’idea di una mostra.

Per i partecipanti era importante che il loro prodotto si distinguesse da tutte le altre manifestazioni esistenti. Non desideravano proporre al pubblico né un’accusa alle autorità, né un’offesa nei confronti delle istituzioni. Desideravano semplicemente trovare un mezzo per rappresentare quanto avevano vissuto in modo che fosse percepibile emozionalmente dall’osservatore.

Fin dalla prima seduta il gruppo si è reso conto, con grande apprezzamento, di quanto fosse nuovo per loro ottenere uno spazio per pensare e per esprimersi senza essere contraddetti.

Le idee apportate erano in parte molto ambiziose, quasi sproporzionate, ma nel corso delle sei sedute si sono fatte sempre più realistiche. Le loro idee erano molto differenti fra loro e ovviamente riflettevano le esperienze personali. Sono state oggetto di reciproche domande, valutazioni e infine accettate, portando quindi ad individuare un concetto tramite cui, grazie a una mostra comune, chiunque avesse idee adeguate avrebbe potuto crearsi un proprio spazio.

Nel corso delle ultime due sedute è apparso evidente che avevano ancora un compito da espletare, cioè quello di creare un’associazione al fine di ricevere i fondi e poter utilizzare il denaro in modo autonomo. Fino a quel momento il denaro era depositato su un nostro conto personale. Si sono così procurati modelli di statuto adeguandoli alle proprie esigenze e, al momento dell’ultima seduta, tutto era pronto. Abbiamo terminato la sesta seduta prima della pausa estiva, lasciandoli liberi di decidere come intendevano proseguire i lavori. Abbiamo offerto loro la possibilità, in caso di bisogno, di contattarci ma hanno esplicitamente chiesto di proseguire autonomamente nei loro intenti.

Per diverso tempo non abbiamo più avuto notizie dal gruppo, finché non abbiamo ricevuto alcune mail dalle quali trapelava che i membri del gruppo avevano avuto dei dissensi fra loro e alcuni avevano deciso di disdire la loro partecipazione. Sembrava che fosse in atto un processo decisamente distruttivo. Il nostro team si è allora riunito per decidere in merito alla questione, giungendo alla decisione di invitare via mail tutti i partecipanti a una seduta nel contesto usuale. Eravamo molto curiosi di vedere se qualcuno sarebbe venuto.

Con nostro grande sollievo quattro persone si sono presentate alla riunione, fra cui due di quelle che avevano dato la “disdetta”. Era loro chiaro che bisognava dare priorità alla fondazione dell’associazione, per poter aver a disposizione il denaro per dedicarsi al lavoro preventivo e poter coprire le spese per i loro incontri senza di noi. Hanno affrontato la questione con molta efficienza nel corso della riunione e, dopo tre giorni dall’incontro, hanno messo in atto la fondazione dell’associazione. Abbiamo concordato con loro una successiva seduta a distanza di circa un mese, una specie di workshop in vista del quale dovevano preparare una descrizione dei loro progetti e delle brevi biografie da consegnare ad un’eventuale sede espositiva interessata al loro progetto.

Per noi è stato interessante notare che il gruppo non è stato in grado di chiederci aiuto, certamente a causa delle esperienze fatte in precedenza, quasi di un transfert e, inoltre, di quanto continui a essere necessario un setting di supporto per consentire loro di lavorare insieme.


 

 [1] Presentado en la Asamblea internacional sobre investigación en la Concepción Operativa de Grupo, Rimini, 20-22 de octubre 2016.

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